Per la Corte di Cassazione integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, avendo concordato con l’azienda sanitaria lo svolgimento dell’attività intra-moenia, ometta il versamento dovuto all’azienda sanitaria medesima delle somme percepite dai pazienti brevi manu. Parimenti anche per i casi di c.d. intra moenia “allargata” (quale ad esempio la fattispecie sottesa al pronunciamento della Corte) ovvero l’attività prestata presso il proprio studio professionale e senza l’utilizzo di strumentazione o l’impiego di personale sanitario; la Corte chiarisce infatti che ciò che rileva più che l’attività professionale è la virtuale sostituzione del medico ai funzionari amministrativi preposti all’attività pubblicistica di riscossione delle somme presso gli sportelli di cassa dell’ente. Per quanto la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio non possa essere riferita al professionista che svolga attivita' intramuraria (la quale e' retta da un regime privatistico), detta qualita' deve essere attribuita a qualunque pubblico dipendente che le prassi e le consuetudini mettano nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro di pertinenza dell'amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 2969 del 06/10/2004. Rv. 231474, Moschi). Secondo i giudici “in definitiva, l'imputato nel momento in cui si e' sostituito all'ente pubblico nel riscuotere le somme pagate dai pazienti, si trovava in possesso di denaro sicuramente (o almeno in parte) pubblico e, in questa veste, era sicuramente pubblico ufficiale, trattandosi di incarico in cui egli veniva sostanzialmente a sostituirsi ai funzionari dell'economato nel ricevere i pagamenti degli assistiti, e le somme da lui incassate erano senza dubbio (almeno in parte) possedute per ragioni di ufficio, avendo questa Corte gia' chiarito che queste ultime devono essere intese in senso lato si' da comprendere anche il possesso derivante da prassi o consuetudini invalse in un determinato ufficio (sez. 6, sent. 10-7-00, Vergine; sent. 10-4-01, La Torre”).
Cassazione Sez. VI Penale, sentenza 23 agosto 2012, n.33150
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